BLACK PISTOLE – Fake News
FAKE NEWS??!
“Il Mondo deve sapere”
CONDIVIDI PRIMA CHE LO CENSURANO!!!1!
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Black Pistole
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“Il Mondo deve sapere”
CONDIVIDI PRIMA CHE LO CENSURANO!!!1!
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Barcellona è disseminata di cannabis social club, ma tra le sue strade non ci sono insegne che ne indichino la presenza: se vuoi trovarne uno, devi sapere già dove andare e se hai dei dubbi conviene controllare su Google Maps l’indirizzo esatto. Però non basta, devi anche conoscere qualcuno che ti ci porti, che ti presenti ai titolari e che ti faccia entrare, prendendosene la responsabilità. Serve inoltre farsi una tessera, fornire i propri dati, essere maggiorenni e pagare l’iscrizione annuale all’associazione. Poi, si è liberi di entrare, e consumare cannabis di qualità, liberamente.
È come entrare in un circolo, in un domicilio privato per fumatori, accogliente e con filtri dell’aria, tavolini, sedie, divani, angolo bar e un cannabis menu, con su scritti i nomi e le caratteristiche delle varietà disponibili. Indica o sativa, quantitativi e percentuali di THC e di CBD per ogni qualità proposta, modalità di coltivazione attuata, gusti ed effetti. I costi, indicati al grammo, vanno dai 6 ai 9 euro circa. Questi non indicano il prezzo di vendita, ma l’ammontare delle donazioni che il socio devolve all’associazione per aver coltivato cannabis al posto suo. Perché i club, associazioni non profit, non vendono.
Il senso dei cannabis social club è proprio questo: coltivare cannabis per i propri soci, per facilitarne un consumo consapevole e di qualità, senza che questi ricorrano a coltivazioni improvvisate o al mercato nero. Mercato nero che, oltre a ingrassare gruppi criminali vari, non garantisce nulla al consumatore, per quel che riguarda qualità, integrità e conseguente utilità del cannabis, sia a scopo medico che ludico, ma anzi ne moltiplica i rischi. Per esempio quelli legati a cattive modalità di conservazione delle infiorescenze, che possono causare muffe e funghi nocivi, tra le altre. Inoltre c’è anche la non trascurabile questione che si tratta di una sostanza illegale, e che venire scoperti con della cannabis addosso, in tasca o in corpo, comporta inutile stress psicologico e fisico, oltre a sanzioni più o meno gravi, amministrative o penali che siano, inutili tanto quanto.
Dal report EMCDDA del 2015 emerge che in Europa le persone che hanno provato la cannabis almeno una volta nella vita sono 78,9 milioni, di cui 19,3 milioni solo durante l’ultimo anno. Sono numeri enormi. E la prevalenza del consumo di cannabis è di circa 5 volte superiore a quella delle altre sostanze. Se poi si pensa che nel vecchio continente 8 sequestri su 10 riguardano proprio la cannabis e che la percentuale dei reati contro la legge sulle sostanze stupefacenti legata al consumo di cannabis è al 63% del totale, si capisce che esiste un problema legislativo che si scontra con gli usi comuni dei cittadini europei. E i cittadini europei siamo noi, cosa che dovrebbe facilitare il cambiamento delle leggi che ne regolano gli usi.
In Italia, la coltivazione di cannabis con THC non è permessa dalla legge, nemmeno per uso personale. Con le dovute precauzioni si può invece già coltivare solo quella a scopo industriale, tessile e alimentare. Inoltre, l’uso a scopo terapeutico è permesso, ma le trafile e le lungaggini burocratiche (sia per i medici che la prescrivono ché per i pazienti che ne usufruiscono) fanno in modo che in pratica non sia possibile. Senza contare il prezzo altissimo del cannabis medico e legale (tipo sui 35 euro al grammo…). Così in pratica, l’unico modo per procurarsi la cannabis, senza andare in bancarotta e senza aspettare secoli, è ricorrere al mercato nero, che si serve di chissà quale cannabis coltivata non si sa dove. Con tutto ciò che ne consegue, per quel che riguarda ordine pubblico, salute e sicurezza pubblica e privata.
Fortunatamente però in Europa (e in molte parti del mondo) qualcosa si sta muovendo e in Spagna si sono già mossi molto, anche se la strada è ancora lunga, e anche se la situazione legale riguardo la cannabis non è poi così chiara, nemmeno ora, nemmeno lì. Le zone grigie rimangono infatti ancora ampie e indefinite. Fuori dal cannabis social club o da un qualsiasi altro domicilio privato, per esempio in strada, non si può avere cannabis addosso, pena il sequestro dei fiori e un verbale che sarà consegnato a un giudice che ne giudicherà la gravità ed emetterà le “dovute” sanzioni: amministrative, per modiche quantità, o penali se verrà rilevata attività di spaccio. Ma se posso procurarmene in cannabis social club, poi non posso portarmela a casa? Appunto… E i club che coltivano e portano al club la cannabis? Appunto…
Difficile, no? Si, abbastanza. Ma meglio che niente, o anche molto bene, direi io.
La coltivazione, la cessione, la condivisione, il possesso e la vendita di cannabis, sono infatti ancora poco o mal regolate in buona parte del pianeta, ma qualche spiraglio positivo si intravede all’orizzonte, ogni giorno di più, grazie al lavoro di degli attivisti, politici e professionisti (vedi ENCOD e FAC) e grazie al fatto che in molti si stanno accorgendo nuovamente dell’utilità oggettiva della pianta, merito anche dei dati e dei soldi raccolti (TANTI) negli ultimi anni in Europa e durante le nuove esperienze americane, come in Colorado e in Uruguay.
Essendoci perciò più studi scientifici sulla cannabis che su molte altre sostanze legali, ed essendo appurato dalla gran parte di questi che non si tratta di una sostanza pericolosa o dannosa, ma che anzi viene ben tollerata dal corpo umano e può essere molto utile per una quantità incredibile di applicazioni e cure mediche (visti anche i lievi, transitori ed eventuali effetti collaterali), non dovrebbe servire più di tanto ricordarne per l’ennesima volta le qualità e la quantità di usi possibili (alimentari, industriali, energetici, ludici), ma invece serve.
Non è solo una questione di denaro e di poterne fare molto (perché è chiaro che se ne può fare parecchio, sia per i privati che per lo stato), ma è anche una questione medica e non profit, di diritti e libertà personali e universali. E di legalità, pure.
Trovare un riparo dalla legge e dalla criminalità dentro a un cannabis social club spagnolo, per esempio, che può esistere grazie alla legge stessa e allo spirito di iniziativa di cittadini responsabili, è una cosa bella. È come leggere l’inizio di una storia a lieto fine di un sistema che funziona e che potrebbe funzionare meglio. E il lieto fine è proprio questo: tentare di far funzionare meglio le cose, sapendo che ce la si può fare, un po’ alla volta. E queste cose farle bene, ché è un attimo perdersi via, in una questione grande come quella del cannabis, materia prima da sempre.
In Italia siamo sempre più pieni di associazioni, professionisti e aziende serie del settore, perché di canapa ne consumiamo molta e siamo sempre stati bravi a coltivarla e a lavorarla. Inoltre, la nostra canapa era ed è tra le migliori al mondo. È quindi anche un’opportunità di produrre e proporre prodotti d’eccellenza made in Italy. Perché, come anticipato, con la canapa si possono fare tante cose, oltre a stare bene e divertirsi. Curarsi, per esempio, lenire il dolore, produrre tessuti e materiali ecologici, cucinare alimenti preziosi e buonissimi, condividere sapori e conoscenze. Ma le leggi devono cambiare. Bisogna regolamentare la questione. Permettere l’autoproduzione. Legalizzare. Toglierla dall’illegalità. Rendere la cannabis legale. C’è già una proposta di legge, presentata da un intergruppo parlamentare e co-firmata da 220 parlamentari (e calendarizzata in Parlamento per il prossimo trimestre!), che prevede la legalizzazione di consumo, vendita e coltivazione, seppur con alcuni (molti) limiti. Ma meglio di niente, o anche molto bene, direi io. Perché da qualche parte bisogna cominciare. E non si tratta solo di poter fumare in libertà, per divertirsi. Molti malati non possono più aspettare. Oppure? Oppure, di nascosto, facendo far soldi (troppi) a qualcuno che non siamo noi, né lo il nostro Stato, per avere del cannabis di cui non sappiamo nulla, o quasi. Quando con una regolamentazione adeguata, con l’autoproduzione e con le possibiltà non profit offerte dai cannabis social club, si potrebbero riprendere le redini della questione. E creare benessere diffuso, con poche o nulle controindicazioni. Almeno sulla carta. Ché il mercato di solito poi si mangia comunque tutto. Ma questa è un’altra storia: la solita. Basta saperlo e agire (!) di conseguenza, as usual.
In “Barcelona Cannabis Social Club”, un video reportage che ho realizzato assieme a Giacomo Imperatori, cerchiamo di approfondire il tema dei cannabis social club a Barcellona, ascoltando posizioni e idee diverse, per offrire un ampio spettro di giudizio su di un argomento ancora così controverso e spinoso. Abbiamo quindi intervistato i rappresentanti di due associazioni cannabiche (A.C.A.M. e Mariland), un avvocato, il responsabile PR dei Mossos d’Esquadra, un coltivatore di cannabis e la direttrice dell’Hash, Marihuana, Cáñamo & Hemp Museum di Barcellona, e montato assieme le loro testimonianza, per giungere a una visione più globale del fenomeno.
Prodotto da 0MRKT con il supporto di Nessuno in post produzione, il video integrale di “Barcelona Cannabis Social Club” è disponibile gratuitamente sul canale 0MRKT_white di YouTube a questo indirizzo: http://youtu.be/Dku7TAzLLgE e lo si può guardare in Full HD (1080p) con i sottotitoli in italiano, in inglese e in spagnolo. Il sito ufficiale di Barcelona Cannabis Social Club è www.bcsc.eu, mentre la pagina Facebook si trova al seguente indirizzo: www.facebook.com/bcsc.eu. Buona visione! E speriamo bene…
(Free weed!)
Persone accampate sugli scogli di Ventimiglia. Stop. Persone che vogliono andare in Francia. Stop. Persone che non ci possono andare. Stop.
Perché?
Perché la confusione è tanta. Ma anche per legge, europea. Da noi approvata. Che poi sia ingiusta, iniqua e ridicola, dovrebbe far riflettere. Ma bisognerebbe rifletterci su queste cose prima che una legge sbagliata, qualunque essa sia, venga approvata. Per cambiarla, prima.
Il Trattato di Dublino III impone ai profughi di chiedere asilo nello stato d’Europa nel quale arrivano. Ma se lo stato di arrivo non è la meta finale del viaggio le cose da noi si complicano.
Succede spesso che i migranti si rifiutino di offrire generalità, documenti, impronte digitali alle autorità, per evitare che una volta raggiunta la loro destinazione (di solito in nord Europa) possano essere rispediti in Italia. Succede spesso che le forze di polizia prendono questi dati con la forza (le impronte, almeno), quando riescono. Succede spesso che i cittadini europei possano non mostrare i documenti alle frontiere solo all’interno dell’area Schengen; fuori, alle frontiere di altri stati, servono i documenti, anche agli europei: è necessario palesarsi e “avvertire” le autorità dello stato nel quale stiamo entrando. Succede spesso che l’Italia faccia finta di non vedere i migranti arrivare e faccia finta di non dover loro chiedere le generalità, scaricando il problema su altri stati (e se ci sgamano a non rispettare Dublino li possiamo sempre accusare di non rispettare Schengen…, ma così non è).
Ma in teoria e in pratica abbiamo il dovere di rispettare le leggi che ci siamo dati, prendendocene le responsabilità. Così come abbiamo il diritto di non rispettare le leggi che ci siamo dati, se le riteniamo ingiuste, prendendocene le responsabilità.
Rispettare queste leggi e questi trattati, implica attuare delle procedure anche scomode e brutte. Come obbligare con la forza delle persone che non hanno commesso alcun reato a fornire le proprie generalità, una volta in suolo italico, entrando a forza in questo sistema burocratico orrido e mal funzionante. E chi di loro volesse richiedere asilo all’Europa è obbligato a farlo in Italia, se è arrivato in Italia, anche se la sua meta è la Svezia. Perché? Perché assieme agli altri stati europei ci siamo accordati così, e se non siamo più convinti di ciò, dobbiamo farlo presente e cambiare o abolire questo Trattato di Dublino, che ci obbliga a fare cose che non vogliamo fare, in Italia. Non le vogliamo fare, queste cose, perché evidentemente non ci portano dei vantaggi e sono cose cattive e violente. Cose che non ci siamo resi conto che lo erano, quando il Trattato l’abbiamo ratificato, con eccessiva leggerezza, evidentemente. Ché quando si tratta di tastiere e digitazione compulsiva siamo tutti delle iene, ma quando ci si presentano delle prede reali, o delle carcasse di speranza davanti agli occhi, è più difficile sbranarle, con i doveri di legge, davanti alle telecamere. Siamo brava gente, dopotutto…
Quindi la soluzione 1 è: più soldi, ci servono più soldi per affrontare questa cosa, non più i famosi 35 euro per richiedente asilo, ma 50, almeno. Soldi dall’Europa, quindi soldi anche da noi, ma che a noi tutti arrivano. Arrivano all’Italia che si prende carico anche di tutte le cose brutte di questa legge. Si prende carico dell’accoglienza dei profughi, dell’assistenza medica, dell’inserimento sociale, delle problematiche di integrazione con i cittadini residenti che dovranno anche loro avere vantaggi dall’accoglienza. Vantaggi che sono cash. Cash per la comunità tutta. E per i servizi, il welfare, l’istruzione, la sanità, il lavoro che non c’è, il reddito minimo garantito. Degli italiani, presenti e futuri. Cash non solo per chi accoglie. Non solo per i privati o le cooperative/associazioni che se ne occupano in prima persona. Lasciare l’accoglienza agli unici che si occupano di welfare in Italia: i privati, la chiesa e i centri sociali, per quanto meglio che niente – ché l’alternativa è il nulla, o quasi, come si è visto – è una sconfitta ovvia dello stato. Quindi, we need more cash per gli stati e le comunità che devono fronteggiare problemi locali, endemici, internazionali e geografici legati ai fenomeni migratori. Problemi di frontiere e di diritti.
La soluzione 1 in breve quindi è: dateci più soldi che così ce ne occupiamo noi veramente (e scusate se ci eravamo sbagliati, se le risorse previste e ratificate anche dall’Italia non bastavano, per fare quello che dovremmo fare, ne servono molte altre). Dateci più soldi, poi facciamo noi. Promesso. Non li rubiamo… forse.
Soluzione 2: ci accontentiamo dei soldi che l’Europa già ci da, e facciamo rispettare il Trattato di Dublino. Con l’uso della forza (ma mica si può eh) e con tutte le cose brutte che ne conseguono. Facciamo la parte dei cattivi. O di quelli che rispettano la legge (?) e la parola data all’Europa. Forse.
Soluzione 3: ce ne freghiamo di Dublino e abbandoniamo a loro stesse, vicino a noi, persone che hanno bisogno d’aiuto, ma che è difficile aiutare istituzionalmente e formalmente, perché implicherebbe obbligarli a rimanere in Italia. A loro spetta il compito di farcela a scappare dalla penisola, senza farsi prendere le impronte, verso la luce del nord anche se brucia, di nascosto e al buio, il più in fretta possibile, come invisibili. All’italiana. Ché in Italia si sa, un futuro per loro è poco probabile. E per gli Italiani anche, forse, ma aspettiamo a dirlo ancora un po’, ché la nostra fiamma è ancora accesa. E magari, domani, con un gratta e vinci risolviamo tutto… Forse.
Soluzione 4: Libertà di movimento per tutti. Forse.
Voi cosa ne pensate?
Quale soluzione scegliereste? Ne conoscete/proponete altre?
E i gratta e vinci li comprate?
E le quote di accoglienza europee?
Da venerdì 20 a domenica 22 febbraio 2015 si è svolta Canapa Mundi, la prima fiera della canapa a Roma, presso il Pala Cavicchi. E ho avuto la fortuna di poterci andare, anche se solo il primo giorno.
Nonostante il poco tempo a disposizione è stata una bella esperienza, passata tra stand, novità, conferenze, vaporizzatori e buffet vegani, parlando di canapa e di Barcelona Cannabis Social Club (BCSC) agli addetti ai lavori, ai media, ai privati, alle aziende e alle associazioni del settore, presenti con i loro stand o con loro rappresentanti in visita – tra i quali SoftSecrets, DolceVita, ASCIA; FreeWeed, LaPiantiamo, ENCOD… e moltissimi altri. In tutti i presenti ho notato una forte volontà di far conoscere meglio la canapa e di liberarla dagli ostacoli che le leggi italiane (e spesso internazionali) impongono ingiustamente, in qualsiasi ambito: medico, alimentare, ludico, energetico, agricolo e industriale.
L’evento mi è sembrato complessivamente di alto livello e si è svolto con uno spirito di dialogo, amichevole e positivo, grazie al professionismo e alla serietà delle persone che hanno organizzato e partecipato (nonostante il cambio di location all’ultimo, che ha obbligato la manifestazione a spostarsi lontano dal centro di Roma). Inoltre, ho anche conosciuto nuovi amici, simpatici e preparati, e che spero di rincontrare presto, tra gli altri: Ramòn, giornalista spagnolo (Cáñamo, Cannabis Magazine), agricoltore e ingegnere agricolo esperto di cannabis, Domenico, agricoltore in erba e in attesa di cominciare la sua prima piantagione di canapa, e Gianluca, scrittore al suo primo libro intitolato “Guerrilla Plantation“, che vi invito a leggere, in attesa di Canapa Mundi 2016.
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